domenica 7 maggio 2023

Ciao Gian

La notizia che te ne sei andato ha portato tristezza in Città. Hanno speso parole per Te tanti e tante, anche  chi da sempre ti è stato contro nelle battaglie.

Per tanto tempo sono stata intimidita dalla Tua personalità, dai Tuoi modi e forse anche dalla Tua storia politica. Le mie scelte correvano parallele alle Tue, coerenti con quel paradosso della sinistra italiana per cui si cercano le differenze, ma raramente ciò che unisce.
Finché una sera di vittoria elettorale tua, sconfitta mia, ti alzasti dalla tua birra e puntandomi il dito contro, mi dicesti quelle che, se pur con il tono di una minaccia, erano parole di stima. Quella sera fu la svolta del mio rapporto con te. Quella sera smisi di temere il confronto con chi rappresentava la sinistra radicale della mia Città. 

Era il 2011, cinque anni dopo saremmo stati insieme, un passo indietro per lasciare spazio a dei giovani. E poi ancora. Manifestazioni, banchetti, volantinaggi, confronti, campagne elettorali e qualche piccolo tentativo di utopia. Incazzature, perchè ogni tanto doveva essere proprio come dicevi tu, ma anche sorrisi e tanta generosità.
Da Assessore all'istruzione non ti dimenticavi mai dei miei ragazzi e delle mie ragazze della formazione professionale, pochi politici hanno questa attenzione. Perché tu arrivavi anche da lì e sapevi quanta potenzialità ci può essere  in chi parte dal fare.
Eri motore di eventi che potessero arricchire  la nostra comunità, come il teatro stracolmo di studenti per la testimonianza delle sorelle Bucci.

Ma soprattutto per me sei il ricordo più bello della seconda parte della mia vita. Una sera, a cena, con il tuo fare diretto e burbero, ti sei proposto come officiante del matrimonio mio con Marco. Tu con la fascia della mia Città, della Tua amata Pinerolo, sotto un ulivo, la Maiella alle spalle, noi due, gli sposi con tutto il nostro mondo attorno. Con la tua sensibilità hai fatto un capolavoro, rendendo quei momenti qualcosa  che in tanti ricordano come Speciale. Sei entrato nei cuori di tutti e di tutte unendo il nord e il sud in un rito che forse non era solo di matrimonio.

L'immagine di Te con il regalo avvolto in una carta di giornale dice esattamente chi eri. Una bellissima foto di Pinerolo, tra le pagine del giornale locale, come ad unire simbolicamente le due terre, Piemonte e Abruzzo con la semplicità e la potenza dei tuoi modi.

L'ultima campagna elettorale ci hai guardati da lontano, scuotendo il capo come si fa con i figli monelli, ma non ci hai mai negato un consiglio, un confronto. La tua profonda esperienza era sempre a disposizione, anche con durezza ma sempre con affetto. Come quando mi hai ripresa alla mia prima apparizione istituzionale in cui mi hai aspettata alla fine per rimproverarmi, perché non avevo usato le parole istituzionalmente più corrette. Da allora prima di prendere la parola visualizzo il tuo volto, come una personale forma scaramantica.

Mi mancherà tutto di Te: la lista infinita di libri che desideravi per il tuo e-reader, scritta nei posti più improbabili, il plasentif in regalo a Natale, il salame del tuo amico lasciato di corsa con la sigaretta sempre accesa, le fisherman sempre in tasca, le bandiere, i cazziatoni, la bicicletta, le parole giuste sempre a disposizione, le rassegne stampa, il buona domenica ogni settimana, la puntuale richiesta di Centerba, gli interventi definitivi, la cassettina per la raccolta dei contributi alle manifestazioni, i conti scritti a mano, la capacità organizzativa, la conoscenza, la disponibilità costante, la capacità di stare tra il compromesso e gli ideali, la generosità, le foto a raffica, la passione per i piccoli, il volontariato, la sportività, te che ti presenti a casa nostra per gli europei con una TV in mano (ancora nostra). Il 25 aprile.

Ciao Gian. Cercheremo di  onorarti portando avanti le battaglie che abbiamo condiviso. Ci hai lasciato una eredità pesante, ma anche tanti insegnamenti. Sarai orgoglioso di noi. Promesso.

lunedì 4 luglio 2022

Per una comunità che sappia ritrovare i propri Ragazzi



Perché i ragazzi si perdono? Oggi si dice per colpa della pandemia che ha modificato i paradigmi e azzerato le motivazioni. Ma non sarà invece che la pandemia ha semplicemente messo una lente su un fenomeno, che ha radici lontane nel tempo e nelle storie che hanno preceduto queste generazioni?

Sul sito ufficiale delle prove' invalsi si legge che le cause della dispersione sono diverse e ben definite in categorie come fattori ascritti, fattori di contesto, e fattori individuali. Ma qualcosa non mi convince del tutto; forse sarebbe più opportuna una unica voce che possa afferire al concetto di responsabilità collettiva.
Nel documento di studio dell'autorità garante per l'Infanzia e l'Adolescenza si ribadisce che la dispersione è un fenomeno complesso da affrontare con occhio pluridisciplinare a partire dai primi anni di vita dei bambini, ma si precisa altresì che "la dispersione scolastica coinvolge [...] non solo la vita sociale di bambini, degli  adolescenti e dei giovani, ma anche quella delle comunità in cui vivono" Inoltre le politiche di contrasto alla dispersione scolastica, se pure con forme diverse, risalgono già alla fine degli anni '90. 

La comunità dovrebbe accogliere, proteggere e evitare traumi. Il concetto di comunità riporta a tutti gli attori che sin da bambini incontriamo sul nostro cammino dai docenti agli amici, dagli educatori agli allenatori, oltre che alle famiglie e alle figure politiche. Figure, che se guardate dall'alto, come riprese in una  panoramica,  appaiono complementari e sinergiche al punto da immaginare soltanto conseguenti azioni di successo. Invece i dati ci dicono altro, raccontandoci di una sotto-comunità, quella dei neet che hanno perso la bussola  e forse anche la speranza. E' lo stesso acronimo a togliere loro fiducia identificandoli come nè una cosa, nè l'altra, di fatto espropriandoli anche di qualsiasi potenziale interesse. 
Sono ragazzi usciti dal circuito scolastico e formativo e mai entrati in quello professionale, ma spesso è stata la scuola stessa che non li ha capiti, li ha mortificati, li ha demotivati. 
Di fronte alle biografie di questi ragazzi si ha sempre la sensazione di una ingiustizia, di aver perso ancora prima che loro, il senso vero del mestiere di insegnante, di aver perso di vista l'obiettivo. 
I loro racconti sono ricchi di non sono capace, senza che mai nessuno abbia saputo  controbattere a così tanta convinzione. Quasi tutte le storie sono accumunate da un'esperienza di non accoglienza, dove la comunità educante è venuta meno al suo ruolo. 

Si guarda al fenomeno della dispersione partendo dal punto di vista degli adulti, attenti al cosa stanno perdendo i ragazzi che fuoriescono dal circuito scolastico; ma se provassimo a cercare cosa la società sta perdendo rinunciando a quei ragazzi, forse si sperimenterebbero strategie nuove.  Si troverebbero probabilmente strade alternative per mettere in luce competenze, che possono essere indicate dagli stessi protagonisti. Ma è necessario saperle riconoscere. Identificarne le caratteristiche per saperle valorizzare e capitalizzare è una vera e propria competenza, un mestiere, di cui la nostra società avrebbe bisogno. 


Dire che la scuola è autoreferenziale è riduttivo, perché nasconde comunque un atteggiamento di chiusura da parte di chi dall'esterno pensa di poter applicare dei correttivi ad un mondo a volte obsoleto, o non rispondente alle caratteristiche di tutti. La scuola, quale parte della comunità garante dell' educazione dell'individuo a tutto tondo, dovrebbe essere la stazione centrale di tutto il viaggio, luogo da cui partire, arrivare e ripartire; ma spesso non è così, perché sono gli incontri che si fanno in viaggio, il clima che si trova nelle varie mete a fare la differenza. L'impressione che si ricava dalle storie dei ragazzi che si sono persi è sempre costantemente quella di chi non ha incontrato empatia e giornate di sole ventilate. Di chi non ha incontrato i professionisti giusti. 

Per essere insegnanti è necessaria una laurea che comprenda un pacchetto di crediti ad hoc per la docenza, ma nessun concorso misurerà la capacità di accogliere e di guardare oltre le difficoltà di apprendimento, nessuna prova sarà in grado di valutare quanto si sia bravi a presidiare i propri ragazzi per aiutarli a scovare le proprie attitudini, a superare debolezze e fragilità per trasformarle in punti di forza. Come diceva Quintiliano, il buon maestro nel correggere gli errori non deve essere aspro e offensivo, perché allontanerebbe i discenti da interesse e applicazione.  

L'impressione è che:
  • la scuola non conosca davvero i ragazzi che perde, cosi da non assumersene la responsabilità
  • la politica non conosca la comunità scolastica, sia nella estensione di chi impara, sia nella forma di chi dovrebbe insegnare, ma solo nella forma di numeri e statistiche.  Così non se ne assume la responsabilità 
  • il mondo del lavoro, pensando quasi ed esclusivamente al profitto non abbia un vero interesse a indagare le ragioni di chi si allontana dalla formazione, piuttosto l'atteggiamento è quello giudicante di chi fa prima a dire che le nuove generazioni non hanno voglia di lavorare a fronte di paghe da miserabili. La responsabilità viene attribuita quindi ai ragazzi stessi, vittime di un vortice di schiaffi morali e danni materiali 
  • le famiglie non sappiano andare oltre la frustrazione causata dal giudizio di una comunità che dovrebbe essere rete di protezione, ma che da tempo viene meno al suo ruolo 
Se solo li si sapesse guardare questi ragazzi, si troverebbero delle piccole chiavi di accesso verso una nuova modalità educativa, di comunità appunto. Come il pedagogo nell'antica Grecia era lo schiavo che accompagnava il bambino nel suo percorso verso la scuola, aiutandolo anche operativamente nelle attività di apprendimento, dovremmo immaginare una società in cui un po' tutti accompagnano i ragazzi nella loro formazione, aiutandoli a visualizzare la loro futura identità sociale e professionale; una comunità che si accorga di loro e che ne sappia cogliere le caratteristiche, al di là di stereotipi e narrazioni ufficiali e ordinarie; una comunità che sappia avere un'ottica ecologica nella promozione della partecipazione e il coinvolgimento, in evoluzione verso la promozione della giustizia sociale e il concetto di comunità competente

I ragazzi si perdono perché collettivamente non abbiamo ancora saputo analizzare i loro bisogni, al di là delle apparenze e cosi non siamo ancora in grado di mobilitare le giuste risorse. Andare oltre le statistiche, approfondire le storie, le passioni, i sogni e anche i mancati progetti, è forse l'unica via, faticosa, ma efficace per ritrovarli. 

La creatività non si trasmette. Ma ognuno, incontrando l'occasione di poterla sperimentare, può accendersene. 
Danilo Dolci

Immagine da storicang.it

 

martedì 5 ottobre 2021

NON PUO' ACCADERE

Una donna, è stata uccisa una donna. 

Ancora. 

L'anno solare non è concluso e in Italia abbiamo superato gli 80 casi. Oltre 80 donne che non ci sono più. 

Una donna, casi; sostantivi che non danno volti, non hanno identità, vanno oltre le storie. Oltre l'umanità.

Parole che portano i drammi lontani da noi, li spersonalizzano ponendo distanze. Come se la distanza rendesse un dolore più lieve, una perdita meno mancanza; la Storia di Quella Donna semplicemente una storia qualsiasi. Un omicidio, la reazione a uno sfinimento, la risposta a un comportamento esasperante. Come se si potesse paragonare un omicidio alla reazione di una mamma che sbotta stufa al millesimo capriccio del figlio. 


Una mattina ti svegli con l'ennesima notizia, a cui ormai hai abituato l'orecchio, ma a richiamare l'attenzione non è tanto il fatto in sé, ma il dove. Vicino a casa. Il paese, la via, e persino il cognome ti risuonano familiari. Ecco che quella distanza si assottiglia e improvvisamente si percepisce il ritorno di quella Umanità abdicata. 


Mia nonna diceva che al brutto ci si abitua ed è a capire la bellezza che bisogna allenarsi, e quindi mi dico che alla parola femminicidio ci si è abituati. Più di 80 volte da Capodanno ne abbiamo sentito parlare in tv, ne abbiamo letto sui giornali. 


Non mi basta più che i media ne parlino. Come la racconto ai miei figli questa storia? Come si passa dalla notizia alla Storia, con tutto il rispetto e il peso che Quelle Donne meritano? 

Vorrei che ci fosse un passo in più alla semplice cronaca; non mi interessano leggi che puniscano gli assassini, perché



una Società giusta, consapevole e matura non arriva a quel punto. E' necessaria una politica di sostegno, un'Istruzione che si occupi anche dell'affettività e del rispetto reciproco, un'educazione che sappia riconoscere che il patriarcato non è la via. C'è bisogno di politiche che rendano scontati i comportamenti che ora affidiamo al buon senso e alla buona educazione famigliare. 


Vorrei che il dolore e lo scandalizzarsi collettivo tornassero ad essere lancinanti e non nascosti nell'indifferenza di uno sconsolato "può accadere". 


Donna senza volto Matisse


sabato 6 marzo 2021

Il cortile

Mi considero fortunata perché ho sempre potuto conservare il mio attaccamento al sole grazie a un pezzetto di orto urbano durante l'anno e alla sterminata campagna guardiese quando ero bambina; e dal 2001 il giardino di casa, anche quando la casa l'ho cambiata. Poi si è aggiunto un cortile, che ha dilatato spazio, rapporti, autonomia e libertà anche nei miei figli. 
Le loro amicizie si sono fatte fratellanza e a me è sembrato di rimpicciolire la città in paese. La libertà di lasciare i figli incustoditi perché la vigilanza era tra pari, perché i rapporti si equilibravano in una forma di mutualismo spontaneo. 
Il cortile che rendeva tutti uguali, anche quelli dell'ultimo piano,  senza giardino, perché nella sicurezza di un recinto potevano esprimere la propria voglia di aria; il cortile democratico perché di tutti e inclusivo, perché aperto a chi del condominio non è. 

Il cortile fino a marzo 2020. Un marzo che mai come allora mi era sembrato primavera. 

Poi il cortile è diventato inconsapevole spettatore della vita dei balconi, dei giardini. Balconi e giardini coralità di una speranza che allungava le braccia all'estate.  

L'estate ha illuso il cortile con qualche timido pallone che ha ripreso a far arrabbiare la signora delle fragole, per le incursioni nel suo giardino. Perchè quando si è grandi non si contempla l'idea che il pallone va dove lo porta l'aria, anche se i piedi lo vorrebbero mandare in tutte le porte del mondo.  

E poi l'autunno e improvvisamente il ricordo di una primavera che  la mia testa assimila a un inverno. Chiusi. 

Oggi siamo quasi a primavera, me lo dicono le violette che spuntano timide in giardino. 

Un anno fa avevo la certezza che sarebbe stato tutto diverso, dopo tutto questo tempo. Ero certa che quel tempo non fosse arrivato inutilmente, ma che avremmo imparato. 
Imparato a essere solidali, a essere pazienti, tolleranti; che avremmo imparato ritmi nuovi, più naturali, più a tempo con il cuore. 

Ero certa. 

Oggi è quasi primavera, me lo dicono i bulbi che affacciano le loro foglie tra l'erba, ma fa freddo. E non è solo la pioggia a scuotere l'aria, ma l'idea che tutto sta ricominciando a fermarsi. Ancora. 
I ragazzi chiusi in casa, i rapporti congelati, i genitori imbarazzati tra scegliere il lavoro ed essere madre e padre, come dovrebbe essere. 
La certezza che non abbiamo imparato niente, la certezza di essermi illusa mi fa male come quando non ci si riprende da una delusione d'amore. Perché è stato bello credere in un mondo nuovo, in un paradigma che avrebbe potuto essere rivoluzione. 

La fame d'aria è la metafora di questo tempo. Tutto quello che sento di volere è aria e sole.


E oggi rientrando a casa il cortile mi è sembrato piccolo, più piccolo di come lo custodivano i miei ricordi. 









mercoledì 24 febbraio 2021

La lontananza. Ciao nonno.

Oggi è uno di quei giorni la cui ombra mi ha rincorso per anni, forse sin da bambina, quando le chiamate al telefono erano via cavo e rare. Quando ne arrivava una fuori dalle ordinarie del fine settimana coincideva con il batticuore e la fretta di preparare una valigia, che potesse contenere vestiti e un piccolo ristoro al senso di colpa che crea la lontananza.
La Lontananza è il titolo della canzone che ha accompagnato la storia d'amore dei miei genitori. 
La lontananza è diventata il leitmotiv della mia vita, inconsapevolmente. 
La lontananza è stata il motore della mia famiglia.

All'origine di tutto c'è stato un uomo, piccolo e grande allo stesso tempo, che ha avuto l'incosciente intuizione che il dolore della lontananza sarebbe stato meno forte di quello della povertà. 
Se non fosse per quella scelta, forte, che oggi appare anacronistica per il nostro paese, io non sarei qui, non sarei tanto di quello che sono. 

Un uomo, dicevamo, che ha coltivato il sacrificio, come senso profondo della vita; che quando era in pensione zappava la terra come se quella terra potesse essere ultima salvezza. Quella stessa terra che ha saputo farci amare di un legame profondo, atavico, quasi soffocante. 

Oggi quel senso di lontananza soffocante è tornato pesante a farsi sentire. Quella valigia era pronta da qualche giorno, pronta per sedare l'ansia pressante che può avere l'attesa per un figlio che sa che sta arrivando il momento dei saluti. Ma si è lontani e forse non si arriverà in tempo. 

Eravamo abituati ai suoi scherzi. Ce ne ha fatti tanti, a volte anche sadici e anche questa volta pensavamo sarebbe andata così: un highlander si risolleva sempre. Avevamo smesso di contare le tante vite che aveva consumato. 

Invece il 24 febbraio.

Mio nonno era un uomo con tante sfaccettature, da cui ho imparato il peso dell'errore e la leggerezza della rinascita. 

Mio nonno era stato un disertore e questo lo rendeva simpatico a prescindere, ma nel raccontarsi non dimenticava mai di dire che l'eroe era il fratello, quello che alla guerra non si era sottratto, l'eroe di famiglia. 

Mio nonno amava gli animali più che gli uomini, da lui ho imparato ad allattare gli agnelli e a parlare con i conigli. 

Mio nonno amava il rispetto in un'accezione fuori moda, di cui forse ci sarebbe bisogno. 

Mio nonno amava la gente, ma odiava i soprusi, disposto a pagare per contarstarli. 

Mio nonno faceva giocare i bambini con filastrocche e giochi antichi. 

Mio nonno negli ultimi anni cantava, rideva e amava. 

Questo è il nonno che porterò nel cuore. 
E l'ombra diventerà presenza. 







martedì 30 giugno 2020

L'educazione è cosa del cuore

Nel corso del tempo ho provato a raccontare in diverse maniere che c'è un mondo quasi sconosciuto, ma un mondo direi necessario. 
Lo so che state per dire: eccola qui, la solita storia, la solita fissa, adesso ci parla dei ragazzi del fare

Fuocherello! 



Vi parlo di chi quotidianamente a questi ragazzi dedica le proprie lezioni, di chi ha deciso che la cura è didattica e l'alternativa la pedagogia. 
I miei colleghi e le mie colleghe sono maestri e maestre nel prendere le strade più amene, quelle che sono state abbandonate in virtù delle tangenziali, quelle che continuano a passare nei villaggi di montagna e nelle frazioni di campagna. 

E' di loro che oggi voglio parlare: i formatori. 

I formatori e le formatrici sono quelli che hanno rinunciato a una identità riconosciuta dalla società, preferendo le smorfie dei parenti e conoscenti che alla domanda che mestiere fai, la risposta non la comprendono. E quando all'ennesimo tentativo capiscono che non sono nemmeno dipendenti di scuole private, gettano la spugna, sintetizzando che tanto non sono insegnanti. 

Ecco parliamo del loro mestiere. 

In questi mesi si sono trovati a reinventare una professione che di identità ne ha mille, ma di strumenti apparentemente uno solo: la relazione. 
In questo lungo periodo di formazione a distanza la relazione è stata faticosissima per tutti, ma per chi è abituato al fare, per chi è abituato a interpretare il linguaggio non  verbale per poter comprendere meglio non detti e vissuti, è stato il pensiero fisso quotidiano. 

La didattica on line è stata bersagliata di critiche e abbiamo sentito ripetere che non è scuola. Io capovolgo l'approccio: la scuola non può essere solo quella a distanza e  un pc non sostituisce il laboratorio. I ragazzi del fare lo sanno bene e da subito si è sentita l'urgenza di trovare un modo per fornire loro strumenti e metodi nuovi. Quello che è successo non è davvero la formazione professionale come deve essere e come i ragazzi se l'aspettavano quando hanno scelto il fare, ma sicuramente potrà diventare quel quid che può sostanziare quel fare cosi prezioso. 

I miei colleghi hanno saputo inventare e riprodursi in ruoli e metodi che nessuno prima ci aveva insegnato. Per dirla meglio, non eravamo stati preparati se non alla cattedra, al laboratorio, consapevoli che più che  in un registro o in un libro la nostra forza è racchiusa nell'empatia. 
E' stata proprio l'empatia e la voglia di arrivare ad ognuno dei nostri ragazzi a darci la forza di superare la fatica di una didattica che non avrebbe mai soddisfatto i nostri desideri, le nostre convinzioni e i bisogni degli allievi. 

Questa esperienza di tempo sospeso è qualcosa che resterà impressa nei nostri ricordi, come un tatuaggio e sarà difficile tornare al prima. Tutto del futuro che ci aspetta subirà il confronto con il prima. Un prima che non era perfetto, ma che a noi ora sembra persino da esempio, un riferimento per ritrovare una sperata normalità; ma forse la normalità assumerà significati nuovi, diversi e al momento imprevedibili. La formazione professionale ha sempre saputo adattarsi a storie e convenzioni nuove, perché la politica le ha sempre giocato qualche scherzo. 

A volte mi sorprendo a pensare alle gite di classe come esperienze troppo lontane per essere replicabili e mi chiedo come potranno sopravvivere degli studenti che spesso certe esperienze le vivono solo grazie alla scuola. Poi mi dico che i miei colleghi sono talmente speciali che riusciranno a inventare un mondo formativo nuovo, perché in emergenza hanno fatto quasi miracoli. Un po' a modo loro sono stati degli eroi: hanno contenuto ansie, controllato distanze e accompagnato dispersi. Hanno continuato a far sentire dei ragazzini distanziati e soli parte di un gruppo, ogni giorno, nonostante difficoltà tecniche e psicologiche, nonostante frustrazioni e impotenze. 

Si è parlato tanto di scuola, di rientro e di assenza delle politiche scolastiche, ma mai, e quando dico mai c'è in me la volontà di assolutizzare il concetto, si è menzionata la formazione professionale. Non si pensa che tra gli adolescenti c'è una buona fetta che ha indirizzato i propri interessi verso delle professioni  e per impararle studia, frequenta, si rapporta con insegnanti e professionisti. Questa a mio avviso è una grave mancanza, perché è come se un corpo non si accorgesse di una sua parte, come se un braccio non sapesse di avere la mano.  Una comunità non può fare a meno degli artigiani, proprio per questo una comunità che non riconosce il giusto ruolo a chi questi artigiani forma è monca. 

I formatori provano a costruire autostime distrutte o inconsce, attraverso ponti di cultura e saperi e gli allievi, attraverso un mutuo gioco di fiducia restituiscono consapevolezza che li accompagna verso l'età adulta. E' un processo che mi affascina ogni anno, ogni volta che saluto un ragazzo o una ragazza al termine del suo colloquio di esame. Una esperienza che lascia il segno ogni volta in modo diverso, unico e irripetibile, perché unico e irripetibile è l'essere umano e l'alchimia che crea nella mescolanza delle esperienze. Eppure mi attraversa allo stesso tempo la frustrazione di non saperlo dire al mondo nel modo giusto, di non saper riconoscere a questa fetta di giovani donne e giovani uomini la giusta importanza. 


Forse aveva ragione don Bosco a dire che l'educazione è cosa del cuore



venerdì 19 giugno 2020

In bocca al lupo ragazzi!



Avreste dovuto cucinare, mescere, accogliere.

Per anni vi abbiamo riempito la testa di informazioni utili a sostenere una settimana d'esame [che manco la maturità!]; un esame percepito lungo una vita, per voi che amate il fare.

Mi ritrovo a cercare le parole per dirvi che ci saremo come sempre ci siamo stati, ma questa volta le parole giuste non le trovo. Mi manca tutto.

Mi mancheranno gli sguardi di sottecchi mentre la commissione passa in cucina, mi mancheranno i movimenti controllati di quando fate accomodare gli ospiti a tavola, mi mancherà la faccia compiaciuta con il vostro piatto decorato tra le mani.
Mi mancherà sentirvi recitare le etichette dei vini che state per servire e l'intonazione maccheronica di un discorso in lingua straniera.
Sentirò la mancanza di quel groppo in gola che vi fa apparire meno sicuri e spavaldi del solito e che a noi formatori fa dimenticare le arrabbiature passate.

La mancanza è stato il "sentire" che ci ha abitato di più negli ultimi mesi.

Abbiamo pensato a tutti i nostri ragazzi, uno per uno, ma a voi che state per fare l'esame un po' di più. 
Vi si sta togliendo l'esperienza per la quale avete lavorato dal primo giorno in cui avete messo piede in laboratorio, i giorni che vi abbiamo fatto sospirare come la resa dei conti, la somma di tutti i sorrisi e le lacrime, l'impegno e la pigrizia.

Abbiamo trovato insieme un modo nuovo per fare didattica, anche un po' divertente forse, e grazie a voi che siete stati tanto generosi da non tirarvi mai indietro a ogni proposta strampalata, chi verrà dopo  troverà probabilmente un po' di fluidità in più. 
E' stata una didattica strana, nuova, di cui sicuramente salveremo qualcosa; il prossimo anno potremo invitarvi come special guest nelle classi prime per mostrare dal vivo quello che sapete fare e indicare loro quale sia la strada. 

Vi siete trasformati, siete cresciuti e la resilienza è diventata la vostra sostanza. Chi era pigro ha provato a stringere i tempi della sua pigrizia, chi era ombroso ha provato a essere sorridente e chi era permaloso ha trovato un po' di autoironia, perché la distanza ha il pregio di tenere a bada l'impulso. I creativi sono diventati ancora più ricchi di colori e i precisi ci hanno dato tante soddisfazioni.

Tanti di voi sono pronti per andare in tv a forza di video ricette e presentazioni multimediali!

Ci resterà il cruccio di non avervi visto abbastanza, nascosti in quella vergogna adolescenziale che "la telecamera è rotta prof". Così da lunedì correremo il rischio di trovarvi diversi: uomini e donne a cui questi mesi hanno lasciato il segno.
Forse non vi riconosceremo, o forse si, perché in questi mesi ci avete detto tanto di voi, ognuno a modo suo, ognuno con le sue particolarità, ognuno con i suoi silenzi.

Questa esperienza così paradossale vi ha tolto tutto della scuola, perchè per voi scuola non significa "libri", ma "mani". E le mani ve le hanno imbrigliate, vi hanno accomunato a tutti gli altri studenti, senza considerare che una professione si impara provandola, agendola.
Ma vi siete adattati e adesso state arrivando alla meta. Una meta che sa di scorciatoia per qualcuno, perché privato anche dello stage, il momento più sospirato di tutto il percorso. Questo è un altro dei nostri crucci: non essere riusciti a proteggervi abbastanza. Ma un'emergenza è un'emergenza e non potevamo prevederlo, nonostante tutti i discorsi sul non rimandare a domani quel che puoi fare oggi con cui vi abbiamo annoiato. Mannaggia anche i prof. sbagliano! e anche noi ci siamo fatti trovare impreparati, ma abbiamo imparato tantissimo

Una promessa ve la voglio fare: mi impegnerò al massimo per dire a tutti quanto lavoro c'è dietro un bancone del bar, quante lacrime a volte si nascondono nelle cucine e quante suole delle scarpe si consumano in una sala di ristorante. Quanta professionalità in un mestiere fatto per farci stare bene, per regalarci attimi di leggerezza che in questi mesi ci sono mancati così tanto. 

Cercate di non mortificare i vostri talenti, accuditeli e fateli diventare vocazione. E' la vocazione che fa la differenza e che vi renderà indispensabili agli altri. 

In bocca al lupo ragazzi!

La Bianco

Immagine https://www.nanopress.it/cultura/2015/11/02/perche-si-dice-in-bocca-al-lupo-e-si-risponde-crepi-il-lupo/96687/